PizzAut dimostra che un’impresa può nascere per generare valore umano, non solo economico, offrendo dignità, formazione e futuro a chi lavora
Fare impresa significa non solo generare utili, ma valorizzare e potenziare le competenze delle persone. Per Nico Acampora, fondatore di PizzAut, il concetto di capitale umano è sbagliato. Non si tratta di una provocazione, bensì della sintesi di una visione radicale: nelle imprese non esistono “capitali fatti di carne e ossa”, esistono persone, con fragilità e potenzialità da valorizzare
Nei ristoranti PizzAut questa visione prende forma: l’inclusione diventa impresa e l’impresa si trasforma in strumento di emancipazione per chi vi lavora. Nico Acampora ha aperto le porte dei suoi locali per raccontare a Lombardia Economy il valore umano dei suoi lavoratori.
In un momento storico in cui molte imprese faticano a trovare e trattenere personale qualificato, PizzAut non solo crea occupazione, ma riesce a far crescere le persone nel lungo periodo, offrendo loro un futuro concreto. Qual è il segreto del “modello PizzAut”?
«La ristorazione oggi fatica a reperire personale qualificato in grado di sostenere i ritmi che il settore richiede. Da un lato è difficile trovare ragazzi disposti a lavorare rinunciando a parte del proprio tempo libero, dall’altro le condizioni offerte sono spesso precarie: contratti a chiamata, senza garanzie. PizzAut incontra minori difficoltà perché ha scelto di lavorare esclusivamente con ragazzi autistici, assunti con contratto a tempo indeterminato, direttamente o in distacco da altre società. La loro formazione è complessa
e richiede attenzioni particolari: spazi insonorizzati, colori adatti, forni e cucine su misura, affinché possano lavorare in sicurezza sentendosi a proprio agio. In un contesto accogliente come il nostro, i ragazzi vengono però a lavorare con entusiasmo incredibile. Per loro il lavoro significa emancipazione, è stare fuori da un centro diurno, uscire di casa, sentirsi parte della società. La motivazione è altissima, le assenze rarissime. Credo che sia questa combinazione – motivazione, ambiente inclusivo e contratti stabili – a fare la differenza».
Con l’apertura della nuova Academy, dove si insegnerà a preparare “la pizza più buona della galassia conosciuta”, PizzAut compie un ulteriore passo avanti: non solo inclusione e occupazione, ma anche formazione professionale con reali prospettive di carriera. Come funzionerà l’Academy?
«L’Academy nasce proprio per fronteggiare la necessità dei ragazzi autistici di una formazione molto specifica e complessa. In concreto, sono previste circa 200 ore: una parte si tiene in aula, mentre la parte più consistente si svolge on the job, ovvero all’interno dei ristoranti. Le attenzioni sono tante, così come la fatica, ma i riscontri sono obiettivamente incredibili. Non si tratta infatti solo di formazione lavorativa e operativa, ci sono alcuni ragazzi che hanno rimparato a scrivere, a socializzare con le altre persone (senza mai averlo fatto prima). È quindi più una formazione di carattere sociale, pedagogico ed educativo. Pensate che alcuni ragazzi arrivano a definire PizzAut come la loro seconda famiglia».
È già successo che alcuni ragazzi formati da PizzAut siano stati assunti da altre aziende. Puoi raccontarci come è andata? Sono stati contrattualizzati come “disabili” e quindi l’impresa in questione ha potuto assolvere all’obbligo di assunzione di personale disabile?
«Assolutamente sì. Come accennavo prima, diverse aziende si rivolgono a PizzAut per ottemperare al loro obbligo assunzionale, nell’ambito di un partenariato. In pratica, noi formiamo il giovane lavoratore, mentre l’azienda in questione li ha già assunti a tempo indeterminato. Una volta completato il percorso, li accompagniamo in azienda. È successo ad esempio a Chiara, che oggi lavora all’Hilton, vicino alla stazione centrale di Milano; a Beatrice, che è entrata in Coop; o a Giulia, che ha trovato il suo posto da Toys, in un settore che non c’entra nulla con la ristorazione. Questo a dimostrazione che da PizzAut non imparano solo a fare pizze, ma sviluppano competenze trasversali utili per qualsiasi lavoro».
Oggi si parla molto della necessità per le imprese di “scalare”. Da imprenditore “visionario”: cosa bisogna davvero scalare? Servono realmente continue nuove aperture e maggiori volumi, oppure bisogna focalizzarsi su livelli sempre più alti di professionalità e competenza del proprio capitale umano?
«Quando mi hanno detto che era un progetto perfetto per essere scalato, ho dovuto documentarmi per capire cosa significasse. Tecnicamente sarebbe possibile, ma ciò che conta davvero – l’amore e la passione dei nostri ragazzi – non è replicabile. Non penso che tutte le imprese debbano trasformarsi in grandi catene del food. Io sogno di aprire altri ristoranti solo per offrire più opportunità di lavoro e futuro ai ragazzi autistici. Ma il sogno più grande resta quello di chiudere: arrivare a un giorno in cui tante aziende assumono persone con autismo, rendendo PizzAut non più necessario.
Infine dico sempre ’noi seminiamo al vento e prima o poi il cielo germoglierà’.
E questo sta già accadendo: ci sono altre realtà che oggi danno lavoro a persone autistiche. È un grande risultato, indipendentemente dal fatto che portino il nome di PizzAut. Ecco in tal senso c’è un elemento scalabile: l’idea di costruire finalmente un mondo migliore».
Viviamo un’epoca di profonda trasformazione del lavoro, segnata dalla digitalizzazione e da forti pressioni sulla produttività. Come conciliare queste spinte con la centralità del capitale umano, inteso come risorsa da valorizzare e non come semplice variabile di costo?
«Per PizzAut il capitale umano non è mai capitale: è semplicemente umano, e non sarà mai una voce di costo. Il nostro obiettivo non è solo generare utili – che naturalmente ci sono – ma garantire benessere, competenze e dignità ai nostri ragazzi. Gli utili sono uno strumento, non il fine. Per noi non esiste capitale umano, esistono le persone. Quanto alla tecnologia, pur non adottando grandi sistemi digitali, abbiamo un’AI unica: l’Autistic Intelligence. È un’intelligenza emotiva, sociale e relazionale che richiede fatica, ma genera un valore immenso. Questa è la vera rivoluzione: rimettere sempre le persone al centro».




