Carenza di personale, rincari e crisi dei consumi: per Michele Ardoni il rilancio della ristorazione passa da innovazione, nuove competenze e attrattività del settore
Prezzi alle stelle, consumi in calo e difficoltà a reperire personale stanno mettendo in crisi la ristorazione italiana. Michele Ardoni, consulente e advisor con una lunga esperienza nel food service e nei principali format di catena indica le leve decisive per rilanciare il settore
Apertura all’innovazione, senza paura di rinnovare la tradizione. Nuove figure professionali capaci di dare stabilità alla filiera, dall’acquisto delle materie prime alla logistica. E un settore che torni ad essere attrattivo con stipendi, percorsi di crescita e gratificazioni adeguate. Sono questi, secondo Michele Ardoni, i tre assi portanti per il futuro della ristorazione italiana. Oggi il comparto vive una crisi strutturale: prezzi alle stelle, consumi in calo, mancanza di personale. In questo scenario, mentre i grandi player internazionali avanzano e la robotica promette di sostituire parte del lavoro umano, molti operatori faticano ad innovare.
Michele Ardoni, qual è stata la sfida più grande nel portare innovazione in un settore tradizionale come quello della ristorazione?
«La principale difficoltà è stata la resistenza culturale. Nella ristorazione italiana vige ancora il principio del “si è sempre fatto così”. Innovare però non significa rinnegare la tradizione, ma renderla più attuale e competitiva. Nonostante ciò, spesso si preferisce il fai da te e si guarda con diffidenza a modelli esteri che potrebbero essere di grande utilità.
La vera sfida è stata far comprendere che l’innovazione non toglie autenticità: al contrario, può essere la chiave per sopravvivere e crescere in un mercato sempre più complesso».
Negli ultimi anni il food delivery ha trasformato le abitudini di consumo: quali nuove competenze e professioni sono emerse grazie a questo cambiamento?
«Con il boom delle ghost kitchen ho introdotto la figura del delivery manager, che coordinava le linee interne e i rapporti con le piattaforme di consegna. In Italia però il mercato del delivery non ha mai avuto lo stesso sviluppo di altri Paesi: i volumi sono concentrati in poche ore del giorno e questo limita la sostenibilità economica. Di fatto quella figura non si è consolidata. Le competenze che restano sono soprattutto legate alla logistica, alla gestione della supply chain e alla capacità di leggere i dati sulle abitudini di consumo».
Le nuove generazioni sono attratte da questo settore? Quali competenze devono sviluppare per avere successo?
«La ristorazione non è percepita come un’opportunità perché non offre prospettive di crescita reale e oltretutto gli stipendi sono bassi a fronte di turni spezzati e di un lavoro faticoso che richiede empatia e relazione con il cliente. Le competenze chiave restano quelle umane: empatia, capacità di interazione, attitudine al servizio. Ma sono proprio le qualità che le nuove generazioni tendono ad avere meno, abituate a relazioni più digitali che personali».
Quanto è importante oggi la componente tecnologica nella ristorazione e quali figure legate al digitale stanno diventando indispensabili?
«È cruciale. La tecnologia è entrata sia nel back-end, con sistemi di produzione e logistica più avanzati, sia nel front-end, con la comunicazione digitale. Le uniche nuove figure che si sono affermate negli ultimi anni sono i social media manager, interni o esterni alle aziende, che gestiscono la relazione con il cliente online. In futuro vedo un impatto crescente della robotica: cucine automatizzate con robot che hanno un “salario” e un costo pari a quello del personale umano, ma senza ferie, malattia o scioperi. Se non troveremo modi per rendere la ristorazione attrattiva, il rischio è che il futuro sia popolato da robot al posto degli addetti umani».
Crede che il sistema formativo (scuole alberghiere, corsi professionali, università) sia al passo con le nuove esigenze della ristorazione?
«Direi di no. Si formano ancora figure tradizionali, mentre mancano competenze trasversali che oggi sono decisive: supply chain management, data analysis, gestione dei costi e dei fornitori a livello globale. La scuola forma camerieri e cuochi, ma il settore avrebbe bisogno anche di ricercatori di prodotto, professionisti capaci di innovare i format e manager in grado di affrontare mercati sempre più complessi».
Quanto conta la contaminazione con altre discipline — marketing, logistica, data analysis — per costruire i profili professionali del futuro?
«Conta moltissimo. Penso al caso di I Love Pokè: i fondatori non venivano dalla ristorazione, uno era un PR e l’altra una ricercatrice chimico-farmaceutica. Proprio perché avevano competenze diverse hanno saputo ascoltare, applicare modelli innovativi e crescere. La contaminazione è la vera ricchezza: marketing, logistica, tecnologia, sostenibilità. Anche il plant-based è un esempio: non è solo un trend etico, ma una filiera nuova che richiede competenze scientifiche e agronomiche e che può diventare una leva per il rilancio della ristorazione e dell’agricoltura italiana. È lì che vedo vera innovazione».




